EUGENIO MONTALE




EUGENIO MONTALE (1896-1981), por Olivia Trioschi

Montale è una delle massime voci della poesia mondiale di questo secolo, insignito del premio Nobel nel 1975. La sua lunghissima carriera di poeta, scrittore, critico letterario e giornalista è da anni oggetto di attenti studi che hanno prodotto una sterminata bibliografia; ciò perchè egli ha saputo dare un'originalissima interpretazione alle inquietudini dell'uomo contemporaneo, ispirandosi ai maestri del Simbolismo e del Decantendismo, ma forse ancor più a Leopardi, e rendendo al contempo estremamente attuali le loro innovazioni. Allo stesso tempo, la sua influenza sui poeti italiani successivi è stata immensa e capillare.

Nato a Genova nel 1896, dove compie gli studi classici, trascorre infanzia e giovinezza tra la città natale e lo splendido paese di Monterosso, nelle Cinque Terre. Dopo la prima guerra mondiale inizia a frequentare i circoli culturali liguri e torinesi, attirando l'attenzione di noti intellettuali. Nel 1927 si trasferisce a Firenze, prima collaboratore di Bemporad e in seguito direttore del Gabinetto Scientifico Letterario Vieusseux, posto da cui viene allontanto nel '38 per antifascismo. Mentre la sua fama di poeta cresce, si dedica anche a traduzioni di poesie e testi teatrali, in prevalenza inglesi. Dopo la guerra si iscrive al Partito d'Azione e inizia un'intensa collaborazione con varie testate giornalistiche, tra cui il Corriere della Sera, per conto del quale compie molti viaggi e si occupa di critica musicale. Montale ha ormai raggiunto fama internazionale, come attestano le numerose traduzioni di sue poesie in svariate lingue; nel 1967 viene nominato senatore a vita e nel 1975 ottiene il Nobel per la letteratura. Muore a Milano nel 1981.

La prima raccolta, intitolata Ossi di Seppia, esce nel 1925. Essa dà già la misura delle possibilità del giovane poeta e mostra la sua distanza da altri grandi poeti italiani, come Ungaretti, di poco più vecchi di lui. Tema centrale delle poesie di Ossi di seppia (titolo quanto mai allusivo di cose diverse: gli ossi di seppia come gusci vuoti, morti, che il mare riporta a riva; come nuvole di inchiostro che le seppie emettono per difendersi; come oggetti da incastrare nelle voliere perchè gli uccelli vi affilino il becco) è il male di vivere, la coscienza della sconfitta dell'uomo irrimediabilmente prigioniero di un mondo di cui gli sfuggono le premesse e le conseguenze.

E' l'angoscia, dunque, che spinge Montale a scrivere. L'angoscia e la coscienza dell'inutilità di ogni battaglia; ciò che, d'altra parte, non gli fa assumere un atteggiamento pietistico e rassegnato. La certezza della sconfitta non presuppone l'abbandono della speranza, che anzi sopravvive e si fa più evidente nel versi dedicati al mare, laddove questo è visto come termine positivo, come autentica lezione di vita. Se non è possibile trovare una risposta all'inutilità del vivere, allora è necessario conservare almeno l'aspirazione a che questo possa un giorno avvenire.

Che può offrire all'uomo, allora, la poesia? Qualche storta sillaba e secca come un ramo, dice Montale. Non certo risposte, nè tantomeno certezze. Tutt'al più la coscienza di ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. La poesia ha valore in quanto documento di un male di vivere dalle proporzioni cosmiche. Da queste premesse scaturiscono le scelte e le intuizioni tecniche del poeta; il quale, rifuggendo ovviamente da uno stile alto e aulico, abbandona allo stesso modo l'ermetismo di Ungaretti, fatto di versi spezzati e parole accostate per il loro valore analogico. Il linguaggio di Montale mira a una "naturalistica precisione", fa uso di tecnicismi o anche termini dialettali; il tono è discorsivo, e lascia spazio a descrizioni paesaggistiche che colgono l'ambiente ligure nella sua asprezza. Con ciò egli intende trovare una rappresentazione simbolica al dato oggettivo, ossia riuscire a evocare un'emozione attraverso la precisa descrizione di fatti e oggetti del mondo reale (come, ad esempio, nei famosi versi di Meriggiare pallido e assorto: E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com'è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia).

"L'accordo con la ruota della negazione" (Fortini), la coscienza del nulla che è l'uomo - nella sua dimensione esistenziale prima che storica - di fronte a un mondo di fatti e cose incomprensibili: sono queste le costanti, introdotte come abbiamo visto con Ossi di seppia, della poesia montaliana; che si ritrovano anche nella seconda raccolta, Le occasioni, pubblicata nel 1939. Già dal titolo questa nuova fatica permette di intuire le novità introdotte da Montale: le occasioni sono le situazioni contingenti dalle quali scatta la memoria di persone, incontri, eventi della vita passata. Dalla contemplazione dell'aspro paesaggio ligure, dunque, si passa al recupero di un vissuto personale tramite il quale le poesie si popolano di ricordi di viaggi o di volti talvolta immaginari. Ciò, tuttavia, non sposta di molto il pessimismo del poeta. Egli si sente il prodotto, l'effetto di una serie di occasioni assolutamente incontrollabili e caotiche, alle quali non è possibile dare nessuna spiegazione. L'irruzione del ricordo nella poesia provoca uno spostamento del linguaggio e dello stile in senso più ermetico; il rifiuto di ogni abbandono sentimentale e lirico, tanto più presente in quanto il poeta attinge ora alla propria storia personale, lo porta infatti "nel chiuso cerchio di un'esperienza tutta individuale… quasi volutamente, aristocraticamente ermetica" (Manacorda). La memoria, pur sollecitata, viene tenuta sotto controllo e ridotta a "niente più che un pretesto per tendere a metafisiche significazioni" (Guglielmino).

Durante gli anni della seconda guerra mondiale Montale compone i versi raccolti ne La bufera, che secondo Fortini sono tra i più difficili (in virtù di un recupero di Mallarmé e dei simbolisti francesi). L'eco del conflitto, qui, arriva a malapena; sembra che gli orrori e le morti non possano incidere in nulla su un pessimismo esistenziale già portato alle sue estreme conseguenze. Ciò non ha mancato di deludere quanti si attendevano dal poeta un impegno civile decisamente più vistoso, dato che durante la dittatura la sua poesia era stata considerata da molti una via di scampo ai trionfalistici e retorici strombazzamenti del regime. Ma Montale non abbandona il suo cammino solitario e si arrocca anzi su posizioni, se possibile, ancora più negative nelle quali fanno però capolino accenni nuovi; soprattutto l'ironia, probabilmente legata alla sua età. Col distacco di un vecchio, infatti, Montale può ora cedere il passo ai toni sarcastici con cui stigmatizza la moderna società, imbevuta di falsi miti e chiacchiere inutili. La sua lezione morale, dunque, resta sino alla fine lucida e coerente: da un mondo di ombre e parvenze, immaginiamo, il poeta si accomiata senza rimpianto.


Manabu Mabe
























OSSI DI SEPPIA

Non rifugiarti nell’ombra
di quel fólto di verzura
come il falchetto che strapiomba
fulmineo nella caldura.

È ora di lasciare il canneto
stento che pare s’addorma
e di guardare le forme
della vita che si sgretola.

Ci muoviamo in un pulviscolo
madreperlaceo che vibra,
in un barbaglio che invischia
gli occhi e un poco ci sfibra.

Pure, lo senti, nel gioco d’aride onde
che impigra in quest’ora di disagio
non buttiamo già in un gorgo senza fondo
le nostre vite randage.

Come quella chiostra di rupi
che sembra sfilaccicarsi
in ragnatele di nubi;
tali i nostri animi arsi

in cui l’illusione brucia
un fuoco pieno di cenere
si perdono nel sereno
di una certezza: la luce.



Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d’un greto,
esiguo specchio in cui guardi un’ellera i suoi corimbi;
e su tutto l’abbraccio d’un bianco cielo quieto.

Codesto è il mio ricordo: non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,
e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memória grigia
schietto come la cima d’una giovinetta palma...



Ciò che di me sapeste
non fu che la scialbatura,
la tonaca che riveste
la nostra umana ventura.

Ed era forse oltre il telo
l’azzurro tranquillo;
vietava il limpido cielo
solo un sigillo.

O vero c’era il falòtico
mutarsi della mia vita,
lo schiudersi d’un’ignita
zolla che mai vedrò.

Restò così questa scorza
la vera mia sostanza;
il fuoco che non si smorza
per me si chiamò: l’ignoranza.

Se un’ombra scorgete, non è
un’ombra – ma quella io sono.
Potessi spiccarla da me,
offrirverla in dono.



Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.



Valmorbia, discorrevano il tuo fondo
fioriti nuvoli di piante agli àsoli.
Nasceva in noi, volti dal cieco caso,
oblio del mondo.

Tacevano gli spari, nel grembo solitario
non dava suono che il Leno roco.
Sbocciava un razzo su lo stelo, fioco
lacrimava nell’aria.

Le notti chiare erano tutte un’alba
r portavano volpi alla mia grotta.
Valmorbia, un nome – e ora nella scialba
memoria, terra dove non annotta.



OSSOS DE SIBA

Não busques abrigo na sombra
desse bosque de verdura
qual o falcão que mergulha
como um raio na canícula.

É hora de deixar quieto
o caniçal sonolento
e de observar as formas
da vida que se esboroa.

Caminhamos numa poeira
de madrepérola vibrante,
num ofuscamento pegajoso
que quase nos desfibra.

No entanto, tu o sentes, mesmo na onda árida
que lassidão nos traz neste instante de enfado
não é hora ainda de lançar num abismo
nossas vidas errantes.  

Como este claustro de rochas
que parece desfiar-se
em teias de nuvens;
assim nossas almas ressequidas

onde a ilusão mantém aceso
um fogo mais de cinzas
se entregam à serenidade
de uma certeza: da luz.



Repenso o teu sorriso e é para mim como uma água límpida
retida por acaso entre as pedras de um rio,
exíguo espelho onde contemplas uma hera e seus corimbos;
e tudo sob o abraço de um branco céu tranquilo.

Esta é a minha lembrança; não sei dizer, faz tanto tempo,
se de teu rosto surge livre uma alma ingênua,
ou se em verdade és dos errantes que o mal do mundo exaure
e o sofrimento carregam como um talismã.

Mas posso dizer-te isto, que teu rosto recordado
afoga a mágoa inconstante numa onda de calma,
e que tua figura se insinua em minha memória nevoenta
imaculada como a copa de uma jovem palmeira.



O que de mim soubeste
não foi mais que a aparência,
a túnica que reveste
nossa humana aventura.

E talvez além do pano
o azul tranquilo estivesse;
tapava o claro céu
um simples sigilo.

Ou era de fato a estapafúrdia
mudança de minha vida,
o abrir-se de uma terra
incendiada que jamais verei.

Restou assim esta casca
minha real substância;
o fogo que não se amortece
para mim chamou-se: ignorância.

Se divisas uma sombra, não é
sombra – mas eu próprio.
Pudesse arrancá-la de mim
e te ofereceria de presente.



Talvez uma manhã andando num ar de vidro,
voltando-me, verei cumprir-se o milagre:
o nada às minhas costas, detrás de mim
o vazio, com um terror de bêbedo.

Depois como numa tela, acamparão de um jato
árvores casas colinas para a ilusão costumeira.
Mas será tarde já; e eu partirei calado
entre os homens que não se voltam, com o meu segredo.



Valmórbia, dispersavam-se em teu fundo
floridas nuvens de plantas tocadas pela brisa.
Nascia em nós, trazidos pelo cego acaso,
o olvido do mundo.

Calavam-se os disparos, no solitário regaço
ouvia-se apenas o som do Leno rouco.
Desabrochava um foguete de sua haste, pálido
lacrimejava no ar.

As noites claras eram todas uma aurora
e traziam raposas a minha gruta.
Valmórbia, um nome – e agora na desbotada
memória, terra onde não anoitece.

(Tradução de Geraldo Holanda Cavalcanti)


Manabu Mabe
























IN LIMINE


Godi se il vento ch'entra nel pomario
vi rimena l'ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquiario.

Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell'eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.

Un rovello è di qua dall'erto muro.
Se procedi t'imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.

Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l'ho pregato,— ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…


IN LIMINE


Folga se o vento sopra no pomar e o
faz tremer na ondulação da vida;
aqui se afunda um morto
urdume de memórias,
que horto já não é, mas relicário.

Não é um voo este adejar ao sol
e sim a comoção do eterno seio;
vê como se transforma um pobre veio
de terra solitário num crisol.

Ímpeto desta parte do árduo muro.
Se avanças, tens contatos
(tu talvez) com o fantasma que te salva;
aqui vão-se compondo histórias, atos
riscados pelo jogo do futuro.

Procura a malha rota nesta rede
que nos estreita, e pula fora, escapa!
Vai, por ti faço votos — minha sede
será leve, a ferrugem menos áspera.

(Tradução: Ivo Barroso)


Manabu Mabe































[NON CHIEDERCI LA PAROLA]


Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.


[NÃO NOS PEÇAS A PALAVRA]


Não nos peças a palavra que acerte cada lado
de nosso ânimo informe, e com letras de fogo
o aclare e resplandeça como açaflor
perdido em meio de poeirento prado.

Ah o homem que lá se vai seguro,
dos outros e de si próprio amigo,
e sua sombra descura que a canícula
estampa num escalavrado muro!

Não nos peças a fórmula que possa abrir mundos,
e sim alguma sílaba torcida e seca como um ramo.
Hoje apenas podemos dizer-te
o que não somos, o que não queremos.

(Tradução: Renato Xavier)


Manabu Mabe



























[MIA VITA]

Mia vita, a te non chiedo lineamenti
fissi, volti plausibili o possessi.
Nel tuo giro inquieto ormai lo stesso
sapore han miele e assenzio.

Il cuore che ogni moto tiene a vile
raro è squassato da trasalimenti.
Così suona talvolta nel silenzio
della campagna un colpo di fucile.


[Ó VIDA]


Ó vida, não te peço lineamentos
fixos, vultos plausíveis ou possessos.
Sinto que no teu giro inquieto o mesmo
sabor que tem o mel tem o absinto.

O coração propenso todo ao vil
raro se afeta com pressentimentos.
Tal como soa às vezes no silêncio
do descampado um tiro de fuzil.

(Tradução: Ivo Barroso)

 

Manabu Mabe































[MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO]


Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d' orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch' ora si rompono ed ora s' intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com' é tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.



[SESTEAR ENTRE PÁLIDO E ABSORTO]

Sestear entre pálido e absorto
junto a um ardente muro de horto;
ouvir por entre sarças e estrepes
pios de melros, silvos de serpes.

Entre as fendas do solo ou pelo coentro
espiar filas de rubras formigas
que ora se espalham, ora se concentram
em cima de minúsculas vigas.

Observar entre a fronde a palpitar
ao longe as escamas do mar
enquanto se erguem os trêmulos rascos
das cigarras de altos penhascos.

E andando ao sol que nos baralha
a vista, ver — triste maravilha —
como é toda esta vida e sua estafa
ao longo deste muro que rebrilha
com seus cacos agudos de garrafa. 

(Tradução: Ivo Barroso)


Manabu Mabe
































[SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO]


Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.


               De Ossi di Seppia (Ossos de Sépia), 1920-1927


[NÃO RARO TIVE O MAL DA VIDA AO LADO]


Não raro tive o mal da vida ao lado:
era o arroio arrochado que gorgolha,
ou era o esturricar-se de uma folha
ardida, ora o cavalo esquartejado.

Do bem não soube, exceto da magia
que emana da divina Indiferença:
como uma estátua assim na sonolência
do meio-dia, e a nuvem, e o falcão no ar alçado.

(Tradução: Ivo Barroso)



Manabu Mabe
































[HO SPARSO DI BECCHIME IL DAVANZALE]


Ho sparso di becchime il davanzale
per il concerto di domani all'alba.
Ho spento il lume e ho atteso il sonno.
E sulla passerella già comincia
la sfilata dei morti grandi e piccoli
che ho conosciuto in vita. Arduo distinguere
tra chi vorrei e non vorrei che fosse
tornato tra noi. Là dove stanno
sembrano inalterabili per un di più
di sublimata corruzione. Abbiamo
fatto del nostro meglio per peggiorare il mondo.


               De Quaderni di Quattro Anni (1973-1977)


[COBRI DE ALPISTE A SACADA]



Cobri de alpiste a sacada
para o concerto da madrugada de amanhã.
Apaguei a luz e esperei pelo sono.
E já na passarela se inicia
o desfile dos mortos grandes e pequenos
que conheci em vida. É difícil distinguir
quem eu gostaria ou não que
regressasse entre nós. Lá onde estão
parecem inalteráveis por um algo mais
de decomposição sublimada. Nós fizemos
o melhor de nossos esforços para piorar o mundo.

 (Tradução: Geraldo Holanda Cavalcanti)



Manabu Mabe
 































LA BELLE DAME SANS MERCI


Certo i gabbiani cantonali hanno atteso invano
le briciole di pale che io gettavo
sul tuo balcone perché tu sentissi
anche chiusa nel sonno le loro strida.

Oggi manchiamo all'appuntamento tutti e due
e il nostro breakfast gela tra cataste
per me di libri inutili e per te di reliquie
che non so: calendari, astucci, fiale e creme.

Stupefacente il tuo volto s'ostina ancora, stagliato
sui fondali di calce del mattino;
ma una vita senz'ali non lo raggiunge e il suo fuoco
soffocato è il bagliore dell'accendino.


 

LA BELLE DAME SANS MERCI


Sem dúvida as gaivotas cantonais esperaram em vão
as migalhas de pão que eu lhes lançava
em teu balcão para que ouvisses
mesmo ferrada no sono os seus estrídulos.

Hoje faltamos os dois ao encontro
e o nosso café da manhã esfria entre as pilhas
para mim de livros inúteis e para ti de relíquias
que ignoro: agendas, estojos, vidros e cremes.

Maravilhoso o teu rosto se obstina ainda, recortado
sobre o pano de fundo de cal da manhã;
mas uma vida sem asas não o alcança e o seu fogo
sufocado é o lampejo de um isqueiro.


(Tradução: Geraldo Holanda Cavalcanti)



Manabu Mabe





























DIVINITÀ IN INCOGNITO

Dicono
che di terrestri divinità tra noi
se ne incontrano sempre meno.
Molte persone dubitano
della loro esistenza su questa terra.
Dicono
che in questo mondo o sopra ce n'è una sola o nessuna;
credono
che i savi antichi fossero tutti pazzi,
schiavi di sortilegi se opinavano
che qualche nume in incognito
li visitasse.

Io dico
che immortali invisibili
agli altri e forse inconsci
del loro privilegio,
deità in fustagno e tascapane,
sacerdotesse in gabardine e sandali,
pizie assorte nel fumo di un gran falò di pigne,
numinose fantasime non irreali, tangibili,
toccate mai,
io ne ho vedute più volte
ma era troppo tardi se tentavo
di smascherarle.

Dicono
che gli dei non scendono quaggiù,
che il creatore non cala col paracadute,
che il fondatore non fonda perché nessuno
l'ha mai fondato o fonduto
e noi siamo solo disguidi
del suo nullificante magistero;

eppure
se una divinità, anche d'infimo grado,
mi ha sfiorato
quel brivido m'ha detto tutto e intanto
l'agnizione mancava e il non essente
essere dileguava.


               De Satura (1962-1970)


 
DIVINDADES INCÓGNITAS


Dizem
que de divindades terrestres entre nós
se encontram cada vez menos.
Muitas pessoas duvidam
de sua existência nesta terra.
Dizem
que neste mundo ou no de cima existe uma só ou nenhuma;
creem
que os sábios antigos eram todos uns loucos,
escravos de sortilégios se diziam
que algum incógnito
os visitava.

Eu digo
que imortais invisíveis
aos outros ou talvez inconscientes
de seus privilégios,
divindades em jeans e com suas mochilas,
sacerdotisas em gabardine e sandálias,
pitonisas de ar absorto à fumação de um fogo de pinhões,
numinosas visões não irreais, tangíveis,
intocadas,
vi muitas vezes
mas sempre tarde demais se tentava
desmascará-las.

Dizem
que os deuses não descem neste mundo,
que o criador não cai de paraquedas,
que o fundador não funda porque ninguém
jamais o fundou ou fundiu
e que nós não somos mais do que os desastres
de seu nulificante magistério;

contudo
se uma divindade, mesmo de ínfimo grau,
alguma vez me roçou
o arrepio que senti me disse tudo e no entanto
faltava-me reconhecê-la e o não existente
ser se esvanecia.

 (Tradução: Geraldo Holanda Cavalcanti)


Comentários

  1. Os poetas não mentem
    Suas verdades inventadas
    São provenientes das dores
    Que só os poetas sentem.

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  2. Gostei muito da poesia "Ó vida"... é verdadeira e visceral!

    Abraços

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